lunedì 26 marzo 2012

Radu Mihaileanu


Un piccolo villaggio del Marocco, ai piedi di una immensa e spettacolare montagna, case basse, povere, prive di elettricità e… di acqua. Tocca alle donne andare a prendere l’acqua, recarsi ad una fontana lontana dal villaggio, con secchi barcollanti su un bastone caricato sulle spalle. E le donne soccombono a questo servizio massacrante, spesso abortiscono per lo sforzo e per cadute rovinose. Radu Mihaileanu ritorna a raccontare le emarginazioni sociali, i diritti negati in un condiviso relativismo culturale, gli abusi e le violenze. Melodramma satirico e divertente, “La sorgente dell’amore” è un affresco entusiasmante di una cultura, quella marocchina, dipinta tra i costumi locali delle donne, che usano il canto come protesta e la danza come forma di affermazione della propria identità di genere. Queste donne scoprono di avere un potere e decidono di farlo valere. Praticano lo sciopero “dell’amore” operando una vera e propria rivoluzione culturale, per la conquista di quei diritti che le affermano come soggetti e non oggetti di proprietà di padri, fratelli e mariti. Realistico e delicato, come è il cinema di Radu Mihaileanu, è un film da non perdere.

mercoledì 15 febbraio 2012




Il linguaggio del cibo                                                                        (Rosalinda Gaudiano)
Il Pane
Pane e acqua, pane e companatico o semplicemente solo pane per soddisfare la fame. Ma anche, pane che trionfa nelle sue più svariate forme sulle tavole imbandite. Pane che conquista, con il suo inconfondibile buon odore che emana dai forni addetti alla panificazione. Certo è che il pane è il cibo per antonomasia: ‘buono come il pane’ la dice tutta sulla bontà e l’importanza che questo alimento ha nelle gastronomie delle più diverse culture che popolano la terra. Le prime produzioni di pane erano ben diverse da quelle di oggi, difatti nei tempi antichi il pane era prodotto con un impasto di cereali e acqua più simile a quello delle focacce. Il pane lievitato nasce verso la metà del terzo millennio a.C. in Egitto grazie alla diffusione della farina di grano tenero facile da impastare e lievitare e si diffonde molto lentamente in area assiro-babilonese e mediterranea. Nutrimento materiale, il pane è anche un simbolo della differenziazione dell’uomo dalle altre specie, tramite la creazione di un processo di trasformazione, mediante la panificazione, degli elementi che si trovano in natura in produzione culturale vera e propria. La panificazione è dunque il simbolo stesso dell’umano e gli uomini si distinguono dai barbari in quanto si nutrono di pane. Nell’Odissea, Ulisse per descrivere la bestiale ferocia di Polifemo dice che egli non somiglia ad un mangiatore di pane ma ad un picco selvoso isolato dagli altri monti. Detto questo, viene da sé che il pane rappresenta, per la sua molteplice e svariata produzione, l’identità culturale delle genti, che si iscrive nelle molteplici identità culinarie, nelle quali gli individui, i gruppi umani si riconoscono proprio in quei codici alimentari tradizionalmente trasmessi, con norme, divieti ed anche tabù. In alcune regioni dell’Italia meridionale il pane è considerato ‘grazia di Dio’, non si getta e se si butta, prima si bacia. La pagnotta non va messa capovolta, porta male. Quest’attribuzione di significati e di valenze culturali attribuiti al pane, fanno di quest’alimento un simbolo per eccellenza di dominio sulla natura. Simbologia che deriva in modo particolare dalla società contadina che con il pane ha sempre riscattato l’insicurezza della fame e del vivere quotidiano. Oltre questi significati caratteristici, il pane, che si divide e si offre, è anche condivisione, nel momento del pasto, tra i commensali che lo offrono come dono, come augurio, come alleanza, come simbolo propiziatorio. Non esiste però ‘il pane’, di questo alimento si conoscono le più svariate forme e varietà, a volte vere e straordinarie opere d’arte, presentate in particolari confezioni che si materializzano in cestelli, pupazzi, animali, ortaggi o quant’altro rappresenti produzione di panetti per occasioni particolari come ritualità e feste religiose o riti di passaggio. In varie regioni italiane il pane diventa simbolo e scandisce momenti e rituali familiari, sociali e religiosi. Per Pasqua in Sardegna si usa ancora confezionare il pane de Pasca, preparato con le stesse tecniche usate per il pane degli sposi, ossia con un impasto di farina di semola, dall’aspetto plastico arricchito da un uovo intero con il guscio. L’uovo viene inserito crudo nelle variegate e fantasiose forme date alla pasta da mani di panificatrici espertissime, che per decorare a intaglio si servono di forbici e coltellini. In Abbruzzo e nel Molise ancora oggi, alcune famiglie di contadini, quando ammazzano il maiale usano i ciccioli macinati, ottenuti dal lardo sciolto, per preparare gustosissimo pane a forma di pagnotta schiacciata dallo spessore di un paio di centimetri. Ed è così che le varie tipologie e forme del pane veicolano messaggi, scandiscono momenti dell’anno solare, rimandano a significati culturali attraverso forme geometriche, antropomorfiche, iconografiche. Nei comuni forni di panificazione vengono sfornate diverse forme di pane, prodotti con varietà considerevoli di sostanze materiali quali sono le farine. Pane di farina bianca, di segale, di farro, di soia, di cereali integrali e così via, prodotto in tante forme. E’ chiaro che questo cibo non è solo da consumare, ma anche da mostrare, qualificandosi veicolo eccellente della condivisione sociale e collettiva. Non è un caso che il pane, come altri alimenti gode di una simbologia distintiva, che utilizza il lessico di registri sensoriali nella costruzione di emozioni che si collegano all’odore penetrante, acuto, caldo, nonché al gusto, tutte singolarità che si racchiudono nella memoria soggettiva e collettiva. L’olfatto è il senso della memoria, della soggettività, e ci ricorda immediatamente, più di qualunque altro senso, l’impressione specifica di una circostanza o di un ambiente, per quanto possano essere lontani nel tempo. L’odore del pane intrattiene un legame privilegiato con la memoria, dà vita ad immagini olfattive profondamente legate ai vissuti ed emozionalmente coinvolgenti. L’odore fragrante ed inebriante che mi conquistava davanti alle enormi pagnotte di grano duro di Vico del Gargano, dalla crosta croccante, la mollica soffice e profumata, dal gusto deciso e saporito, sono ricordi che mi riportano indietro nel tempo e fanno di quel pane il veicolo simbolico di un tempo, di valori ed emozioni straordinarie. Non tralasciamo il significato simbolico che il pane assume, come simbolo alimentare, nella religione cristiana. In un sermone di S. Agostino si evince nei dettagli l’identità metaforica fra la fabbricazione del pane e la formazione del nuovo cristiano.

Questo pane racconta la vostra storia. E’ spuntato come grano nei campi. La terra l’ha fatto crescere, la pioggia l’ha nutrito e l’ha fatto maturare in spiga. … il pane per eccellenza è Cristo stesso, seminato nella Vergine, fermentato nella carne, impastato nella passione, cotto nel forno del sepolcro, condito nelle chiese che ogni giorno distribuiscono ai fedeli il cibo celeste.

Simbolo di culto e di tradizione laici e collettivi, rappresentativi di un’umanità totale, il pane assurge ad elemento gastronomico distintivo culturale-religioso, a soggetto comunicativo non verbale, in un colloquio costante con uno dei primari bisogni umani, la fame.

martedì 17 gennaio 2012

"Passione"


Napule è…
Passione
“Passione” è un documentario carico di passione sfrenata verso la napoletanità, raccontata attraverso lo sguardo e la sensibilità registiche di un entusiasta John Turturro che costruisce un accattivante messaggio con simbolici tasselli della canzone napoletana. La validità di questo documentario consiste proprio nell’aver saputo concentrare in quasi ’90 minuti una storia musicale che riesce ad esprimere modi di essere, norme e valori del popolo partenopeo nella forma più diretta ed essenziale. La musica, le canzoni che “Passione” raccoglie si rivelano così un valido strumento di confronto e riflessione, una partecipazione attiva e coinvolgente nella società e cultura partenopea nel corso della sua travagliata storia. John Turturro, attore di grande spessore ed anche valido regista, usa la forma musicale per mediare messaggi filmici che acquistano valore assoluto per la simbologia usata ricercando sempre più una comunicazione diretta ed efficace, senza tralasciare particolari forme stilistiche. “Romance and the Cigarettes” (presentato a Venezia nel 2005) ne è una sua precedente prova registica. In questo film Turturro, anche attore e sceneggiatore, intreccia nel racconto delle storie di vita dei personaggi e degli accadimenti, ben 23 brani musicali che si inseriscono sapientemente nelle relazioni fra le parti del film e costituiscono un tutt’uno con la forma filmica, dando vita ad un’esplosione di emozioni e di passioni organizzate in un tutto funzionale. “Passione” non gode di una storia, è un film-documentario sulla Napoli che “canta”. Una Napoli schietta, sorridente, addolorata, vergognosa, salterella. Una Napoli che si propone musicalmente attraverso il medioevale e struggente “Canto delle lavandaie del Vomero”; con “Carmela”, cantata da un’intramontabile Mina; “Era de Maggio”, poesia di Salvatore Di Giacomo, musicata da Mario Pasquale Costa, rappresentata da Turturro con una singolare interpretazione di Peppe Servillo degli Avion Travel; “Indifferentemente” prende forza e vigore dalla voce di Misia, cantante portoghese di fado; “Maruzzella” esplode nella sua forza significativa con l’interpretazione di un Gennaro Cosmo Parlato, che si veste di una maschera addolorata per interpretare questo brano partenopeo, con una voce prorompente e nello stesso tempo carica di una melodiosità struggente che conquista ed affascina. Voci potenti, graffianti, voci che si sposano con la bellezza della città e del mare di Napoli, come quella di Pietra Montecorvino, roca e irriverente, degna interprete dei brani “Come facette mammeta” e “Dove sta Zazà?”. Napoli ha mille storie, mille facce, dettate dalle tante incursioni culturali che la città partenopea ha avuto nei trascorsi secoli della sua storia. L’idea stessa di napoletanità affonda le radici in un dinamico processo di dialogo fra tutte le differenze culturali che hanno stanziato sul territorio partenopeo. Nonostante ciò, il carattere “culturale” (in senso antropologico) della napoletanità ha sempre più assunto una dimensione olistica e naturalizzata con il riconoscimento di un modo di essere, di una lingua, di un comportamento e soprattutto di un’identità urbana napoletana. Nasce da questo processo intrinsecamente culturale, ricco di simboli specifici come la canzone napoletana, la napoletanità che nel tempo ha assunto i confini di un vero e proprio ethnos urbano, dai contorni nazionali, rassomigliando sempre più ad una forma di comunità nazionale invece che ad un fenomeno di campanilismo locale. Turturro coglie l’immagine di questa comunità nazionale nella canzone napoletana, nella sua forma sensitiva fortemente articolata, ben rappresentata in una rigorosa struttura capace di rendere le forme di quell’esperienza vitale che il linguaggio non riesce a produrre. E non a torto il regista di “Passione” dedica a “Tammurriata nera”, canzone straordinariamente interpreta da Beppe Barra, dalla voce potente della tunisina M’Barka Ben Taleb e dal sassofono suadente di Max Casella, uno spazio esaltante che restituisce alla canzone partenopea gli ingredienti dei sentimenti, della vita, delle emozioni e delle miserie. Le performance canore in “Passione” sebbene simboli veraci di una cultura dalle molte facce e stratagemmi, sono articolazioni e non affermazioni, espressività e non espressione di un popolo dai significati singolari e diretti. A vucchella, Napule è, O’ Sole mio, Malafemmina, Catarì, Pistol Packin’ Mama, Passione e molte altre canzoni napoletane rappresentano quell’humus culturale-affettivo, espressione di un simbolismo profondo e perché no, universale. Turturro, nell’entusiasmante carrellata di canzoni napoletane, non ha fatto altro che ricostruire una storia culturale, ed in questa costruzione il suo divertimento è arrivato al massimo ballando liberamente al ritmo frenetico di “Caravan Petrol”, cantata da un formidabile (siciliano) Fiorello. Rosalinda Gaudiano

sabato 14 gennaio 2012

Apocalypse now


I Capolavori del Cinema: “Apocalypse Now”


Quest’opera cinematografica, definita “capolavoro intramontabile”, ha una sua caratteristica ben precisa che deriva dall’idea di fondo che ha ispirato il regista. Alla fine, l’idea, divenuta filo conduttore dell’opera, genera quel vigore necessario alla sceneggiatura, alla struttura interna della narrazione, fino a governare quel momento decisivo che è l’esecuzione del montaggio, momento in cui l’opera acquista un senso e definisce nelle sequenze la compiutezza della costruzione del messaggio. In tutto questo, non avviene altro che la fusione in un unico concetto di due elementi molto diversi, che hanno determinato la realizzazione dell’opera: l’immaginazione, che appartiene all’idea spontanea e ingovernabile, e la metodologia di scrittura filmica, che regolarizza l’opera e la realizza nella concretezza.
“Apocalypse Now” (1979), diretto da Francis Ford Coppola, uno dei più grandi registi hollywoodiani, è un’epica rappresentazione della guerra del Vietnam, vagamente ispirata al romanzo di Conrad “Cuore di tenebra”, in cui i fatti bellici acquistano la dimensione di una grande metafora della vita umana e delle sue contraddizioni.
La realizzazione del film è nata da un’idea comune di due famosi sceneggiatori americani: John Milius e George Lucas.
Quest’opera di Coppola, che ha impiegato ben tre anni per realizzarla, appartiene ad un periodo di grande rinascita del cinema americano. Ricordiamo che la produzione cinematografica americana di quegli anni deriva da un decennio drammatico che va dalla contestazione di Berkeley alla fine della guerra del Vietnam, passando per l’esperienza hippie, nonché per le lotte antirazziste, la crescita della cultura underground, e di conseguenza il momento fu favorevole allo sviluppo di un cinema di forte impegno sociale.
E così, a partire dagli anni settanta la fucina cinematografica Hollywoodiana si ripresenta, dopo una fase che possiamo definire di crisi, sul mercato nazionale ed internazionale con opere cinematografiche stimolanti e socialmente vive, tanto da poter essere considerate validi mezzi di riproduzione o di trasformazione della realtà fenomenica.
Ed è appunto in queste circostanze sociali e politiche che nasce “Apocalypse Now”, film di denuncia, provocatorio, spettacolare, che lascia trapelare una particolare riflessione sui comportamenti umani.
Coppola, con “Apocalypse Now”, ha realizzato un’opera che nella sua spettacolarità, coniuga la particolare realtà legata al dinamismo dell’orchestrazione dei conflitti bellici con gli elementi costitutivi della natura umana artefice della guerra stessa, delle catastrofi umane.
Ed è proprio sulla base di questo concetto che “Apocalypse Now” può essere definito un capolavoro, un documento della storia del cinema, un’opera d’arte. Se definiamo opera d’arte qualcosa che si presta continuamente nel tempo ad essere interpretata, poiché stimolo di sensazioni, emozioni, idee, non sbagliamo nel considerare tale un film come “Apocalypse Now”.
Con uno scenario apocalittico di guerra, che ripropone un periodo molto triste della storia americana: Vietnam anno terzo, il film invia il suo messaggio ruotando intorno alla figura del capitano Willard (Martin Sheen), e alla diabolico-divinatoria presenza umana del colonnello Kurtz (Marlon Brando).
Benjamin Willard, capitano dell’esercito americano, è inviato ai confini della Cambogia per una missione segreta: uccidere il folle colonnello dell’esercito americano Walter Kurtz, perché sottrattosi ai comandi dell’esercito, si è autoproclamato dittatore di un villaggio della Cambogia.
Il viaggio lungo il fiume per Willard rappresenta un viaggio nella sua anima, una presa di coscienza degli orrori, dei dubbi, delle inutilità e delle gratuità che l’orchestrazione di uno spazio bellico comporta.
In guerra la mente umana cambia rotta: dal pensiero coerente e utilmente finalizzato, l’uomo raggiunge il delirio, la liceità di ogni sorta di nefandezza come gli stermini in massa di civili, crudeltà mai contemplate in altri momenti. Willard compie un viaggio nell’incubo, nella follia, entra in contatto con ogni sorta di animalità umana. E’ sua la voce narrante del film, come uno specchio implacabile che riflette l’altra faccia dell’io umano e fa comprendere cosa sia capace di fare in condizioni di totale liceità, come succede in guerra, in tutte le guerre.
Il punto focale del film è, però, il compimento della missione di Willard, ossia l’incontro faccia a faccia con il volto dell’orrore, l’impersonificazione del male, la barbarie, le tenebre: il colonnello Kurtz.
Ed è qui che viene fuori la grandezza del film, espressa nell’ibridezza di una narrazione che sintetizza alcuni dei generi filmici più importanti, dal bellico al noir, all’horror, fino al western e al documentario, reinventando attraverso un duplice processo la fiction, e la fiction tramite il mito. Si, perché Coppola, come vedremo, si avvale del mito nella caratterizzazione dell’emblematico personaggio di Kurtz.
Siamo di fronte ad una vera sintesi antropologica- visuale.
La ricerca da parte di Coppola di fonti culturali che sostenessero il filo conduttore su una narrazione che apertamente ponesse una critica alla cultura occidentale, e quindi alla civiltà dell’occidente, si attua con precisi riferimenti a testi di letteratura noti.
L’attraversamento del fiume asiatico in barca, da parte di Willard, è un chiaro riferimento al romanzo di Conrad “Cuore di tenebra”, pre-testo letterario del film, da cui ha tratto l’idea rappresentativa della discesa agli inferi e la spettacolarizzazione delle atrocità della guerra del Vietnam. Ma, anche l’opera di Nietzsche “Così parlò Zarathustra” nella sua concezione del “Superuomo” che si lega a sentimenti terreni, e “la Terra desolata” di Eliot nella sua tematica sulla disgregazione del genere umano attraverso il rigetto del bene, sono altrettanto visibili come riferimenti letterari.
 Nel momento in cui Willard approda sull’isola tiranneggiata dal colonnello Kurtz, non sa se si trova sprofondato nell’inferno o qualcosa di simile. Una voce, sulla terra ferma, attira la sua attenzione: è un americano, reporter, che diventa mediatore tra Willard e Kurtz.
 Il riferimento di queste scene a costrutti mitologici è palese. Coppola ha chiaramente chiamato in causa l’opera di Frazer “Il ramo d’oro” (tanto da inquadrare fugacemente il testo letterario nel finale!), proponendo nella fiction il rito della successione al potere del re-sacerdote.
Sconvolgente la scena che mostra in contemporanea il massacro del toro, ritualità sacrificale indigena, ed il massacro di Kurtz per mano di Willard, “Nulla potrà impedire all’uomo-Dio di invecchiare, indebolirsi ed infine morire” (James Frazer, Il ramo d’oro, pag. 309, Newton, 1992)
Willard compie la sua missione, uccide Kurtz, da lui atteso, per conquistare una sorta di purificazione per le crudeltà commesse. “Orrore, Orrore”, ultime parole da lui pronunciate prima di essere massacrato dalla falce stretta nelle mani di Willard.
E Willard, compiuto il rito dell’uccisione del colonnello Kurtz, sa che l’inferno non è molto dissimile da quel luogo, ma percepisce una verità scioccante: la barbarie umana è il prodotto della civiltà. Il pericolo non è nella natura, nella sua contrapposizione di luce e tenebre, ma il grande pericolo è nell’uomo stesso, che governa il potere sugli altri, e nella bramosia di terre da colonizzare ha trasformato la civiltà in barbarie, perdendo il senso vero e sublime del sentimento, del rispetto dell’uomo verso l’uomo, dell’essere “civile” nei confronti del selvaggio, attribuendogli, di comodo, quel “male” che non ha. E’ Kurtz la rappresentazione più infernale e apocalittica della civiltà! Ma Willard e Kurtz non sono molto dissimili. L’uno uccide sempre per la conquista del potere, magari al suono sconvolgente della “Cavalcata delle Walkirie”, inventandosi una morale di comodo. E l’altro, Dio supremo di una violenza sanguinaria e feroce per sete di un potere unico e assoluto, affida la successione della “divinità” a colui che gli si scaglierà contro per infliggergli il colpo mortale.
Coppola non fa trasparire alcun giudizio su comportamenti giusti o sbagliati. Egli prospetta i fatti così come sono, le persone sono caratterizzate dalla loro storia “umana”. La riflessione sulla ricerca di una possibilità per fermare il “progresso della civiltà” forse viene spontanea.
E’ l’inizio del film che purtroppo dà una risposta, aprendo con l’indimenticabile canzone dei Doors: “The End”. Rosalinda Gaudiano

Addio mia concubina


... se fanciulla io sarò ...
“ADDIO MIACONCUBINA”, un'opera magistrale

Il regista cinese Chen Kaige con il film “Addio mia Concubina” realizza un'importanteopera artistica grazie alla sua capacità di appropriarsi di una sintassi cinematograficacon cui crea un vocabolario iconografico proprio. Il film può considerarsi unsignificativo documento cinematografico, per lo stile, la struttura, ilmontaggio delle immagini, i valori culturali relativi alla cultura cinese cheil film media. Chen Kaige usa come soggetto culturale il melodramma, elementoculturale distintivo della cultura cinese. La compagnia teatrale dell'opera diPechino è stata nei secoli elemento d'identità culturale importante per ilpopolo cinese. Interessante è nel film, il mettere in evidenza da parte delregista, che la rappresentazione teatrale del melodramma non subiva nel tempoalcun cambiamento. E a tale proposito, il regista contrappone, in parallelo, ildelicato aspetto dell'evoluzione culturale e sociale avvenuta tra il 1920 ed il1970 in Cina, mentre la compagnia teatrale di Pechino si proponeva sempre ecostantemente come soggetto artistico, con le stesse opere melodrammatiche,senza cambiare neanche un gesto, una mimica del viso, un suono. Per la varietàdegli intrecci scenici, il film presenta nella sua struttura una narrazione edun montaggio complessi. Il nucleo centrale del racconto è costituito perl'appunto dall'opera cinese “ Addio mia Concubina”, scritta nei primi anni delnovecento dal drammaturgo cinese Mai Lanfang. L'opera in questo contestorappresenta l'elemento unificante tra gli attori che la interpretano ed ilcontesto sociale di cui fanno parte. Essere attore della compagnia dell'operadi Pechino, vuol dire essere investiti da un ruolo che caratterizza in mododeterminate l'identità degli stessi attori. La loro identità di personecombacia con quella dei personaggi che interpretano nelle rappresentazioniteatrali. Basta soffermarsi sui costumi che gli attori indossano perinterpretare i ruoli nel melodramma. I loro colori simboleggiano l'autorità delruolo. Dal giallo al rosso, al violetto, al rosa, al verde chiaro e scarlatto.Anche le maschere, dipinte sui visi, forniscono l'informazione necessaria perdecifrare l'enigma della distribuzione dei ruoli, nonché il ritratto morale delpersonaggio. Rappresentare un'opera teatrale, per il teatro di Pechinosignificava e significa a tutt'oggi rappresentare uno spazio ed un tempoimmutabili, cristallizzati, a cui veniva attribuita una simbologia che molto siavvicinava ad un senso di sacralità inviolabile, senza possibilità dicambiamento. Nel film, il melodramma, nella sua rappresentatività, è immersoappunto nella sua forma di sacralità intoccabile, e vive la sua storia inparallelo all'evoluzione degli eventi sociali che si dipanano nella Cina diquegli anni. La storia rappresenta, nella sua lunga evoluzione che lega ilmontaggio filmico, significati valoriali, comportamenti legati ad unaeducazione rigida ed indiscussa, legami relazionali forti e passionali, modi divivere un tempo ed uno spazio in contraddizione con ciò che si è e ciò che sidovrebbe essere. In effetti, ciò che rende il film fruibile allo spettatore,nonostante la complessità della sua forma narrativa, è la relazione fra le sueparti rispettosa di regole organizzative precise, coese fra loro. L'immagine,le emozioni rappresentate, sia esplicite che implicite, il colore, il suono, ilcampo come spazio visibile all'interno dell'inquadratura, la storia che prendeforma grazie al sapiente intreccio delle parti che costituisce il sistemaformale, connotano l'effetto di senso dell'opera del regista. Sin dal suoinizio, il film ci pone di fronte a situazioni emotive, che coinvolgonodecisamente lo spettatore. Il piccolo Douzi viene affidato dalla madre, unaprostituta, alla prestigiosa scuola di teatro dell'opera di Pechino, dopoavergli amputato un dito che il piccolo aveva in più dalla nascita. La scuola,racchiusa nel suo spazio nel suo tempo, ancorata a rigidissime regole diformazione, rappresenta per i futuri giovanissimi attori il luogo di vita, doveapprendono a forgiare la loro personalità, a rinunciare ai propri bisogni, adaccettare solo chi sono e a rinunciare a cosa vorrebbero essere. E come inmolti casi, le angherie si sopportano meglio in due, Douzi si lega in manieramorbosa a Shitou, con il quale fa coppia fissa nell'apprendere a recitarel'opera” Addio mia Concubina”, in cui Douzi è Chen Dieyi, la concubina, parteche gli si confà per il suo aspetto femmineo innato, (cui si converte anchepsicologicamente dopo costrizioni violente!!) e Shitou è Duan Xiaolou. Il re,che la concubina amerà fino alla morte. Intorno alla rappresentazione diquest'opera che si perpetuerà per ben 30 anni, immutata nella sua formarecitativa a carattere rigido, ruotano le storie di vita dei personaggi delfilm, e la stessa vita sociale e politica del paese. L'autorità del maestro diteatro Guan, rappresenta per i futuri attori l'autorevolezza, un riferimento disicurezza emotiva. L'affermazione dei due “amici” d'arte e di vita, Douzi eShitou, come attori degni di acclamazione, non li sottrae, in ogni caso, alpatteggiamento con una realtà che impera fuori dal loro ambiente del teatro.Vedi l'incontro di Shitou con una splendida prostituta, Juxian, con la quale sisposa, provocando la tumultuosa gelosia di Douzi. Intanto la Cina subiscel'invasione giapponese, cui fa seguito la scalata al potere del partito comunistacinese. La Cina vive anni d’inesorabile cambiamento politico! L'accusa perDouzi di aver collaborato con i giapponesi per salvare l'amico amato Shitou,incrina in maniera irreparabile i rapporti fra i due amici particolari. Per dipiù Juxian perde il suo bambino, perché travolta dalla folla durante scontripolitici. Inoltre Douzi dimostra una fragilità caratteriale non controllabilecon la sua dedizione all'oppio, che lo distruggerà in maniera irreversibile.Infine anche il teatro viene politicizzato, rielaborato nella sua strutturaimmobile, dagli eventi di forte cambiamento di politica interna. E la coscienzadegli attori, anch'essa subisce sconvolgimenti nei riferimenti valoriali.Shitou rinnega l'amore per Juxian , che si suicida. Durante l'ultimarappresentazione del melodramma “Addio mia Concubina”, nel 1977, nella coscienzadei due attori-amici, la percezione del cambiamento è forte. Gli animi sonostati inesorabilmente scossi dagli eventi luttuosi accaduti, ma la concubinaprofessa fino all'ultimo l'amore per il suo re, e si uccide realmente alla finedella rappresentazione. Rosalinda
Gaudiano

venerdì 13 gennaio 2012

Quei grandi occhiali da sole, classe ed eleganza in un semplicissimo tubino nero, una collana da mille e una notte, un'adorabile Audrey Hepburn, icona intramontabile